Il coaching individuale – si sa – è un percorso di cambiamento. E’, cioè, un percorso nel quale e attraverso il quale un professionista, manager o imprenditore mette a fuoco una competenza, un’abilità comportamentale che vuole acquisire o potenziare e, affiancato dal coach, si allena per acquisirla.
Per esempio potremmo dare il caso di un professionista che, verificata la sua inadeguatezza a motivare i collaboratori, voglia lavorare su di se e sulla propria capacità di motivazione, prendendo come obiettivo il saper agire e comunicare verso i suoi in modo coinvolgente e motivante.
All’inizio del percorso di coaching è di solito il coach stesso a dichiarare che il percorso funge da attivatore del cambiamento desiderato, quasi fosse un acceleratore di un processo che forse è già parzialmente in atto ma che ha bisogno di una marcia in più, di una spinta e forse anche di uno specchio di consapevolezza e di un aiuto metodologico per essere portato a compimento. E’ cura del coach, inoltre, all’inizio del percorso, spiegare chiaramente che, se non vi è una vera disponibilità al cambiamento, l’intero percorso viene vanificato e porta risultati scarsi o nulli.
In alcuni casi, invece – ma per fortuna sono assai rari – il coachee non aderisce a questa proposta; dichiara di essere pienamente soddisfatto di come opera e di come si relaziona, oppure percepisce l’obiettivo di miglioramento (magari perché “assegnatogli” dall’azienda di cui fa parte, oppure segnalatogli solo dai suoi collaboratori e/o superiori) come estraneo e non personale. Questa è naturalmente una situazione difficile da gestire, soprattutto per quello che concerne i rapporti con l’azienda di cui la persona fa parte, che spesso è anche il committente del percorso di coaching. Ma, almeno, è una situazione chiara che, se ben gestita sia con il coachee sia con l’azienda, può anche essere positiva.
Ma cosa succede se, dietro l’obiettivo di miglioramento e le dichiarazioni esplicite di voler cambiare, si nasconde invece una radicale paura del cambiamento? Cosa avviene se dietro l’obiettivo dichiarato, si cela invece una non-volontà di affrontare le conseguenze che il cambiamento comporterebbe?
In realtà introdurre un cambiamento nello stile di leadership è un po’ come gettare un sasso in uno stagno: ripercussioni e cambiamenti si avranno a cascata fino a generare “onde di cambiamento” anche lontano da dove il cambiamento è stato attivato.
Tornando all’esempio di prima, un professionista potrebbe voler diventare più coinvolgente e motivante nell’esercizio della sua leadership, ma, in caso di successo, dovrebbe poi affrontare le conseguenze del suo atteggiamento mutato. Innanzitutto un cambio di immagine nel contesto in cui opera: ieri era il capo distante e autoritario che decideva in solitudine, ora attua modalità di comunicazione più aperte, coinvolge i suoi nelle decisioni, cerca di dare più fiducia, attiva momenti di condivisione e di confronto. E questo, a sua volta, vuol dire investire tempo: nella comunicazione, nella delega, nell’ascolto.
Poi potrebbe scoprire che i suoi collaboratori reagiscono bene a questa iniezione di fiducia e di delega, e quindi trovarsi con idee nuove da gestire, iniziative da valutare, o magari anche qualche critica o proposta di miglioramento.
Spesso questo aspetto non è evidente agli occhi del coachee all’inizio del percorso ed egli è quindi disponibile al cambiamento solo in teoria, come una risposta a un dover essere che si percepisce essere di maggior valore ma che non si vuole abbia conseguenze nella gestione quotidiana. Si desidera, in pratica, un cambiamento a “costo zero”.
E’ quindi compito del coach aiutare il coachee ad esplicitare e rendere evidenti queste conseguenze, in modo tale che l’adesione al percorso di cambiamento sia poi piena e totale.
“In coscienza, non so dire se la situazione sarà migliore quando cambierà;
posso dire però che deve cambiare se si vuole che diventi migliore.”
(Georg Lichtenberg, Aforismi)