Forse è stato questo il vero grande castigo per il Peccato Originale: il cervello umano, che prima si beava delle meraviglie dell’Eden, ha imparato dopo il patatrack a interessarsi più del negativo che del buono. Il mondo è un posto minaccioso e pericoloso e la nostra attenzione è attratta soprattutto dai segnali negativi e dalle brutte notizie.
Provate a convincere un giornalista a mandare in pagina una notizia felice. Noi stessi ci vediamo più come carenti e incompleti, che come abili e capaci, perché non parliamo quella lingua o perché non abbiamo avuto quella promozione. Siamo deviati da una sorta di filtro negativo attraverso il quale vediamo le cose e noi stessi essenzialmente come problemi, crisi, errori, carenze, e il lavoro e la vita come inseguimenti in salita.
Naturalmente si inizia con la scuola, dove si è valutati in funzione del numero di errori e non per le qualità o per i successi. Ma poi le cose non cambiano molto nel lavoro, dove spesso i termini stessi che vengono utilizzati: problem-solving, diagnosi, area di miglioramento, ecc. evocano un’idea fissa di bicchiere mezzo vuoto e di eterna rincorsa a colmare i gap.
Il risultato di questa sintassi pessimistica del discorso organizzativo è che si stabilizza nella mente collettiva delle aziende un modo di pensare fatto di convinzioni limitanti (Non ne vale la pena… Tanto non cambierà mai niente….). Di pensieri e giudizi che ci pongono in uno stato frequente di ansia da prestazione, che ci mettono sulla difensiva (Sbaglierò ancora? Daranno la colpa a me? Sono negato…). Reazioni ansiose, comportamenti difensivi: il contrario di ciò che può favorire la passione, la creatività, l’innovazione.
Ma mentre si sta comprendendo la pesantezza del pensiero negativo, si sta facendo spazio nella riflessione manageriale l’idea che l’ottimismo possa essere una risorsa strategica.
Partire dai punti di forza, sostituire il Problem Solving con la Success Analysis, fare leva su ciò che le persone sanno fare bene, con passione e successo, inizia a sembrare molto più furbo che fare la lista delle cose che non vanno. Si tratta di sviluppare in noi la capacità di cambiare la cornice percettiva attraverso cui vediamo il mondo e lo schematizziamo. Per farlo dobbiamo allenarci rafforzando quella che si definisce “Agility”, ovvero quella capacità di essere in grado di cambiare modo di vedere e adattarsi al contesto, superando vecchi limiti ed offrendo soluzioni efficaci al cambiamento richiesto in modo creativo e funzionale.
Questo cambio di paradigma investe in realtà diversi settori. Taylor Still, medico e fondatore della osteopatia, dice che “l’obiettivo del medico dovrebbe essere quello di trovare la salute. Chiunque è in grado di trovare la malattia.” Seligman, voce guida della corrente della psicologia positiva, ha contribuito a spostare il centro dell’attenzione della sua disciplina dalla patologia al benessere psicologico. L’ottimismo, sostiene Seligman, è uno stato mentale che predispone a leggere gli eventi in una chiave possibilista. E l’ottimismo si può imparare e diffondere.
Allo stesso modo le scuole di management, di leadership organizzativa, stanno riposizionando la figura del leader da un compito di analista/controllore dei gap ad uno di valorizzatore di talenti. Dalla domanda chiave: cosa ci manca per essere bravi, si sta dando la precedenza alla domanda: cosa sappiamo fare davvero bene.
E’ molto citato il caso di British Airways, dove davanti ad una crisi di smarrimento seriale dei bagagli dei propri clienti, il management invece che lanciare una caccia agli errori di processo, chiese al personale responsabile di raccontare esattamente cosa veniva fatto, e come, quando le consegne avvenivano perfettamente. Con risultati eccellenti.
C’è più ricchezza nella parte piena del bicchiere. A condizione di tenere a bada la nostra consolidata abitudine di notare, sempre e prima, la parte vuota.
“Non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso modo di pensare con cui li abbiamo creati”
(Albert Einstein)