Quando nel 1954, Pitirim A. Sorokin, uno dei grandi padri della sociologia europea e americana, diede alle stampe il suo “The Ways and Power of Love” il mondo accademico non la prese bene.
Un grande sociologo che si occupa di una cosa così futile come l’amore?
Eppure Sorokin aveva scorto in quella “elementare” forza alla portata di tutti che è l’amore (in particolare l’amore altruistico) una formidabile fonte di energia creativa.
Il professore e fondatore della facoltà di sociologia dell’Università di Harvard fece di questa intuizione l’oggetto della ricerca dei suoi ultimi anni di vita, e lo fece con così forte impegno da arrivare a promuovere la nascita dell’Harvard Research Center in Creative Altruism.
La tesi centrale dell’opera di Sorokin, era che gli approcci individualistici e utilitaristi non riescono a spiegare pienamente le scelte delle persone sia come individui che come gruppi.
L’Homo Oeconomicus di Smith, che fa dell’orientamento egoistico e individualista delle scelte personali il motore dello sviluppo e del progresso, non può essere alla base della convivenza e dello sviluppo umano. Se così fosse, sosteneva Sorokin, l’umanità si sarebbe già estinta. Ci voleva qualcosa di più grande, di più profondo, qualcosa che per la prima volta si sarebbe tentato di misurare e verificare in intensità, estensione, durata… qualcosa come l’amore.
Migliaia di pagine scritte e centinaia di esperimenti e ricerche empiriche dello staff del Research Center riuscirono a collocare solo in modo molto parziale l’approccio e l’analisi sorokiniana nel flusso espansivo della sociologia americana degli anni ’60.
Erano tempi duri, tempi di Guerra Fredda e un approccio troppo complesso come quello di Sorokin rischiava di confondere studenti e professori. Si preferirono altri approcci più immediati e diretti che raccontavano di società e organizzazioni che rispondono a strutture definite, a schemi precostituiti nell’essere umano, a funzioni e ruoli da interpretare socialmente.
Ai ricercatori del Research Center in Creative Altruism era mancato probabilmente il supporto “obiettivo” di qualche strumento che potesse misurare quando, come, quanto e cosa l’altruismo muove all’interno delle persone e dei gruppi.
Sono bastati pochi decenni e gli strumenti adatti perché le tecniche di indagine più avanzate consegnassero alle neuroscienze i dati inconfutabili di come gesti di natura altruistica modifichino alcune strutture cerebrali (arrivando, se ripetuti nel tempo, ad ampliare le aree modificate stesse). Tali modifiche inducono le persone a gestire meglio i momenti di stress e di tensione, ad avere una migliore qualità della vita, ad essere più efficienti ed efficaci nel medio e lungo periodo, a prendere decisioni migliori e con un impatto più positivo su di sé e sugli altri (in tutti gli ambiti della vita, privata o professionale che sia).
Per quanto riguarda i gruppi e le organizzazioni è provato che l’attitudine (e l’abitudine) a un clima altruistico migliora l’engagement e la collaborazione, garantisce migliori performance a livello individuale e di team, stimola la sintonia e armonizza il gruppo in modo che si può definire automatico verso gli obbiettivi e sulla focalizzazione sul processo in vista dei risultati… dando un forte slancio allo spirito di sacrificio che tante volte è alla base delle imprese umane più significative*. Questo è l’impatto dell’altruismo nelle organizzazioni, nei team, negli individui. Spesso è dallo spirito di sacrificio (specialmente quando condiviso) che nascono le imprese umane più significative.
Siccome altruismo non è buonismo, nei team dove il livello di altruismo è salito, contemporaneamente sono saliti:
1. la qualità delle decisioni prese
2. la trasparenza e il flusso comunicativo
3. la stabilità dei rapporti
4. la capacità di gestire cambiamenti e transizioni
5. ed infine il livello di fiducia è immediatamente aumentato arrivando a superare del 30% il livello iniziale.
Le cose si sono così tanto evolute che siamo arrivati alle soglie del 2020 con una pubblicazione scientifica di due ricercatrici della LSE (London School of Economics)** che parla nientemeno che di Altruistic Capital. Il Capitale Altruistico che persone, società e organizzazioni hanno a disposizione e che, come tutti i capitali, possono decidere di aumentare, investire, offrire … un vero e proprio strumento economico a disposizione di persone, aziende e istituzioni.
Interessante notare che le due ricercatrici della LSE hanno sviluppato questa teoria lavorando con il mondo che è apparentemente più lontano dall’approccio altruistico, le banche.
Come coach e consulenti parliamo e sentiamo parlare continuamente di sfide e cambiamenti. Ecco la nuova sfida e il nuovo cambiamento. La nuova frontiera del coaching e della formazione avrà a che fare con la sfida di sviluppare approcci altruistici, di supportare i clienti nel considerare le loro scelte, i loro obbiettivi, i loro percorsi di crescita e di sviluppo in modo sempre più integrale: valutando l’impatto che essi hanno e avranno sulle persone con cui vivono e collaborano e sull’ambiente circostante. Come professionisti sappiamo già che questo è vero, lo vediamo ad esempio quando supportiamo percorsi di Group Coaching, c’è un momento fondamentale in cui il gruppo di coachee fa un salto diremo quantico, contemporaneamente, passa su un altro livello… Quando i partecipanti al percorso finiscono di parlare di sé, di dare consigli, di provare a trovare soluzioni e diventano coach, ascoltano attivamente, fanno domande, danno feedback senza giudicare; ecco che allora spostano il baricentro da sé stessi all’altro, diventano strumenti per l’altro. Improvvisamente tutto funziona meglio e i risultati arrivano più in fretta.
Non è moralismo… è semplicemente ammettere che Sorokin aveva ragione.
*(Inclusive Leadership: The View From Six Countries by J. Prime and E. R. Salib – Catalyst Research Center -2014)
** Ashraf, Nava and Bandiera, Oriana (2017) Altruistic capital. American Economic Review, 107
(5). pp. 70-75. ISSN 0002-8282