“Rabida con Colon, por favor”.
È la frase che ripeto ormai da qualche giorno ogni volta che salgo su di un taxi che dal centro di Quito mi porta all’albergo. La dico distrattamente, con la rapidità propria di chi è ancora avvolto dalle sensazioni del luogo appena visitato, ma già proteso verso la prossima destinazione.
In qualche modo mi sento protetto dall’anonimato e mi pregusto il breve viaggio nel quale conto di riguardare alcuni scatti fatti la mattina, affidandomi completamente all’esperienza dell’autista che dimostra di sapere bene dove deve andare e come arrivarci.
Ecco. Mi rilasso.
“De donde…..” Seguono alcune parole biascicate dal taxista, o che forse io, distratto, non colgo. Ho captato abbastanza però per abbozzare una risposta. Mi sento disturbato, un po’ infastidito…ero così tranquillo.
Comunque rispondo, “De Italia.”
“Ah, Italia!” Ecco. Il solito entusiasmo, per me incomprensibile.
“Italia…” continua, “il paese de…”
Ecco, ci siamo.
Ora dirà “Juventus” se è un patito di calcio, o peggio: “Berlusconi”. Lo so, lo so, me lo sento. Anzi ne sono certo. Già nella mia testa si prepara la risposta che tante volte ho dovuto dare durante la mia sia pur breve esperienza di emigrato all’estero.
“….de Leonardo da Vinci!” Fa lui.
Ecco. Fregato. Sorpreso. Incredulo. Felice. Orgoglioso. Il tutto nel breve tempo di una svolta a sinistra.
Solo ora mi viene istintivo di guardare la sua immagine nello specchietto retrovisore. Voglio vedere il volto di chi dall’altra parte del mondo associa con sicurezza la parola “Italia” a Leonardo da Vinci, senza esitazione, senza sforzo.
Non so ancora che questo viaggio in taxi si sta per trasformare in uno degli incontri più interessanti delle mie tournée.
Lo ringrazio. Gli dico che sempre mi capita di ascoltare persone che quando parlano dell’Italia parlano di Berlusconi. Lui neanche risponde. Per lui l’Italia è Leonardo da Vinci, punto e basta. Anzi, continua raccontando che ha visto una mostra da qualche parte qui a Quito su Leonardo da Vinci, mi spiega l’origine di quel nome e dice che doveva avere un cervello eccezionale.
Poi silenzio. Fermi nel traffico che stamattina sembra fare di tutto per prolungare la mia permanenza dentro quell’abitacolo.
Rompo il silenzio dicendo che sono attore e che stasera farò spettacolo alla “Capilla del hombre” al Museo Guayasamin.
Il suo sguardo si accende. Dopo pochi secondi mi chiede il mio nome. Mi chiede anche di fare lo spelling… Eseguo. Non capisco bene. Ancora fermi al semaforo. Dopo pochi istanti lui fa esplodere la sua voce dicendo:
“Usted esta en Facebook, en Twitter, tiene sito web!” Ma come ha fatto? Che sta facendo? Solo ora mi rendo conto che quando teneva la sguardo verso il basso, non stava controllando il suo gps, ma stava navigando su internet sul suo smart phone…! E aggiunge: “Ma tu vendi la tua macchina!” Già, in effetti l’ultimo messaggio messo suP Facebook prima di partire era l’annuncio della messa in vendita della mia auto. Incredibile!
Confermo.
“E sei anche fotografo!” Esatto. Ha trovato anche il mio sito web da fotografo. Ormai sa più lui di me di quanto non sappiano alcuni miei parenti di primo grado.
“E che tipo di foto fai, cosa ti piace fotografare? Paesaggi?”
Gli rispondo che mi piace fare streetphotography, reportage… Gli dico che mi piace selezionare frammenti della realtà, fermare nello scatto quello che c’è e che forse non tutti vedono, o colgono.
E lui…”ah, si! Ho capito! È come per le piante!”
Ecco. Lo sapevo. Devo aver detto qualcosa in spagnolo che lui ha compreso male… Sto per riformulare la frase e lui:
“È come per me con le piante. Per me una volta le piante erano solo piante. Giravo per Quito e vedevo piante. Poi un giorno un passeggero mi ha indicato una pianta al lato della strada e mi ha detto: «Quella è un Alamo, vede?» e da allora ho capito. Dovevo poter distinguere le piante per nome. Non quello scientifico, troppo difficile, ma quello comune. Ho studiato ed ora saprei dire il nome di ogni pianta che incontriamo da qui all’albergo. Prima erano solo piante, ora io so vedere cose che gli altri non vedono. Come lei con le foto”.
Ok. Ko.
Ora mi rendo conto che questo viaggio vorrei non finisse tra pochi minuti. Con lui chiacchiererei volentieri ancora un po’. In ultimo lo invito allo spettacolo di stasera.
Aggiungo che sarà gratis. Lui mi promette che se non avrà impegni verrà. Mi chiede di che spettacolo si tratta, di cosa parla. “Pablo Neruda”, dico. “Ah, non conosco molto di lui, però se avrò tempo verrò”.
Mi chiede il permesso di cercarmi su Facebook e di chiedermi l’amicizia. Con entusiasmo dico sì.
Ci salutiamo. Pago. Scendo dal taxi. Entro in hotel. Controllo le email. Trovo la richiesta di amicizia. Quel volto ha un nome: Oscar Romero.
Poteva finire qui. Sarebbe bastato per costringermi a limare ancora una volta la mia istintiva maledetta tentazione di stare per i fatti miei, di non chiacchierare con gli sconosciuti. E invece no.
Sono le 19.05. Lo spettacolo inizia alle 19.30. Il pubblico entra in sala. Vado ancora in bagno a lavarmi le mani. Sono concentrato sullo spettacolo. Esco dal bagno e… Oscar è lì. Con un sorriso aperto, meraviglioso. Mi abbraccia forte. Come due amici che non si vedevano da tempo ci stringiamo. È lì. Felice di essere lì. Io felice di essere lì con lui.
Devo andare a prepararmi, gli prometto che ci saluteremo a fine spettacolo.
“El telefono me despertò muy temprano…” Lo spettacolo corre via. Un grande successo. Serata indimenticabile.
E ancora non so che ciò che la renderà indimenticabile, per me, deve ancora accadere.
Mi cambio, velocemente mi rendo presentabile per incontrare il pubblico e le autorità che ci aspettano in sala.
Esco.
Oscar è lì.
Felice di essere stato lì.
Mi abbraccia. Lo ringrazio. Lui mi dice che lo spettacolo lo ha emozionato tanto. E poi aggiunge:
“Ti ringrazio. È stato incredibile. Stamattina mai avrei immaginato di incontrare uno sul mio taxi e poi finire la giornata qui. Ho subito cercato su Wikipedia notizie su Neruda. Volevo essere preparato. È la prima volta nella mia vita che vado a teatro. La prima volta che entro in un museo. Non sarà l’ultima, te lo prometto”.
Un sorriso. Un abbraccio.
Ecco.
Ora può davvero finire qui.
Grazie, Oscar.