La nostra società post-moderna è stata definita “la società della stanchezza”[1]. Viviamo in un perpetuo e trafelato presente che antropologi chiamano “la tirannia dell’istante”[2]. Tutto è urgente e importante, ci sono sempre molte cose da fare, vedere, persone da chiamare, riunioni da presidiare. Siamo connessi in un’intricata rete relazionale, in un “adesso” lungo un giorno; social network, e-mail, tablet, telefonini, riunioni. Siamo virtualmente presenti in mille luoghi,o almeno ne abbiamo l’illusione.
Ci sentiamo protagonisti del nostro tempo, ma anche vittime di un “eterno” presente. La concezione del tempo è in continua accelerazione in cui il ritmo vitale è scandito dalla pretesa di una costante crescita di produttività, da orari di lavoro sempre più lunghi, privi di confine. L’ambizione di rendere ogni cosa più efficiente e una continua iperattività, influenza tutti i settori e non si ferma neppure davanti alla sfera privata. Aumenta il disturbo da deficit di attenzione e focalizzazione che colpisce principalmente i bambini, gli adulti di domani.
Efficacia, efficienza e tempestività: le parole archetipiche dei nostri anni più recenti, bastano sempre meno ad orientare le aziende e le persone che ne costituiscono l’anima.
Proviamo, allora, a rintracciare altre parole sepolte dal continuo ed incessante “fare”: pensare, immaginare, meditare, sognare, darsi tempo, visualizzare, progettare, elaborare, esplorare. Tutte parole che precedono un’azione; tutte parole che richiedono una sosta.
Sostare è l’esercizio più difficile per un manager.
Paolo (il nome è di fantasia), è un manager di una nota società di consulenza cui è stato proposto un percorso di coaching per migliorare le sue competenze manageriali, in particolar modo, la sua comunicazione nel dare feedback percepita da colleghi e collaboratori eccessivamente aggressiva. Paolo non ha difficoltà a riconoscere questa sua area critica; è motivato a cambiare e a fissare obiettivi di miglioramento. Quello che trova difficile è fermarsi per due ore (il tempo di un colloquio di coaching) e sostare in uno spazio/tempo diverso da quello vissuto nella sua quotidianità lavorativa, in cui l’unica connessione praticabile è quella con se stesso.
Si aspetta di dover produrre, fare qualcosa o che il coach “faccia” qualcosa. I primi colloqui sono faticosi per Paolo e anche per il coach; non capisce dove si “vada a parare“. La tentazione di guardare il cellulare aziendale è forte: “…dovessero arrivare messaggi dai miei collaboratori…sa, stiamo chiudendo un progetto importante, ci sono sempre urgenze cui far fronte..posso tenerlo acceso?“. Non lo dice esplicitamente, ma si capisce che considera queste due ore di coaching, seppur ritenute importanti, sottratte al lavoro vero e proprio; riunioni, e-mail da leggere e da inviare. Azione, azione, azione.
Poi la sosta forzata del colloquio, a poco a poco assume per Paolo la funzione di un rituale dove poter vivere uno spazio tutto per sé, sottratto dalle pretese del mondo esterno. Paolo sperimenta il gusto di un tempo diverso. Non che non si lavori. Il coach ascolta, fa domande, utilizza il feedback, a volte lo “sfida” nel trovare nuove strade. Paolo riflette, elabora i suoi comportamenti, visualizza diversi scenari, si sfida, progetta azioni, rintraccia risorse interne assopite, si assume la responsabilità del proprio agire e pensare. E inizia ad assaporare i primi cambiamenti; il clima conflittuale del suo gruppo si va stemperando, sente di aver acquisito un tempo interno più quieto, meno febbrile. Utilizza il feedback con più delicatezza e consapevolezza. Il percorso di coaching si conclude; c’è ancora della strada da percorrere, ma Paolo ha trovato i suoi strumenti e la forza per farlo.
Quale “magia” è intervenuta? Il coach ha solo innescato un processo di consapevolezza e responsabilità, il resto lo ha fatto il manager.
Paolo, nel suo sostare, ha scoperto un luogo dove dialogare e narrarsi. E la narrazione, come ci sottolineano gli studi più recenti della psicologia, è la nostra unica capacità di autorganizzare, elaborare e rielaborare gli episodi della nostra vita, i pensieri, le azioni colorandole di senso e significato. Narrare implica anche selezionare gli eventi e collocarli nel tempo; c’è un prima, un durante, un dopo. Nel raccontarsi, quindi, il nostro manager è andato al cuore dei suoi comportamenti relativi al dare feedback e ha riflettuto sia su di sé, cosa ha fatto e come lo ha fatto, sia sul contesto, cosa è successo, sia sui suoi collaboratori, come hanno reagito e quali gli effetti relazionali. Attraverso il racconto, è passato da un fare reattivo ad un agire consapevole.
Ma Paolo ha sperimentato anche un utilizzo diverso del suo tempo, meno efficientista in termini di immediata produttività. Gli antichi greci chiamavano questa qualità del tempo “Kairos”, il dio dell’occasione propizia, del momento giusto e lo raffiguravano come un giovane con la testa rasata e un grosso ricciolo sulla fronte da afferrare al volo. Lo contrapponevano a “Chronos”, il tempo misurabile, il tempo del “fare” e del lavoro pianificato e razionalizzato. Kairos, dunque, rappresenta la sosta del movimento del presente in continuo mutamento, l’immersione nel qui-e-ora e il riconoscimento delle opportunità.
In questo sostare Paolo, accompagnato dal suo coach, si è dato il permesso di sperimentare momenti di silenzio, di pausa, di contatto con i propri sentimenti, pensieri, immagini, visioni per poi progettare azioni mirate e responsabili.
Paolo e tutti i manager come lui che desiderino mettersi in gioco in un percorso di coaching, dovranno avere coraggio per impegnarsi a coltivare l’arte della sosta nel frenetico vortice quotidiano.
La grandezza, di un uomo o di un popolo, non è colorita, sonora, applaudibile, rapida: è una cosa intensa, lenta;
si nutre di silenzio e di tempo.
(Massimo Bontempelli, Il Bianco e il Nero, 1987)
[1] Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo,Roma 2012[2] Thomas Hylland Eriksen,Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica,Milano,Eleuthera,2003