Il titolo suona un po’ ruvido, ma intende evocare un’azione manageriale saggia. Per le persone, per il team, per l’azienda.
Poniamo che in un team di management ci siano due persone che frenano. Poniamo anche che il leader del team abbia fatto tutto ciò che andava fatto per rimuovere le cause dell’ostruzionismo, ma senza successo. Non resta che una cosa: allontanare le due persone dal team. Sembra ovvio, ma spesso invece si assiste a risposte dei capi team all’insegna dell’attendismo, del fatalismo, di una mal intesa prudenza, o della resa all’inevitabile.
La cosa più importante per un progetto d’impresa è che ci sia la squadra giusta a gestirlo. Per squadra giusta si intende non solo la presenza delle persone giuste, per competenze e comportamenti. Ovvio. Ma anche, e questo può essere meno ovvio, l’assenza di persone sbagliate.
Ne parla per autorevolmente Jim Collins, l’autore del best seller Good to Great (trad. it. O meglio, o niente. Come si vince la mediocrità e si raggiunge l’eccellenza. Mondadori) che sottolinea come la selezione delle persone giuste, e solo di quelle, fatta prima ancora della definizione di obiettivi strategici, sia un tratto ricorrente delle aziende eccellenti.
Parliamo qui di team di management; ma potremmo estendere il ragionamento anche a team di progetto o di funzione.
Il punto è importante perché richiama l’attenzione sul fatto che un team con la rilevanza e visibilità di un team direzionale non è come un serbatoio di competenze, nel quale, posto che ci siano le conoscenze richieste, una o due persone non allineate non ne diminuiscono la capacità. Errore. Un team è un sistema vivente, e un agente negativo interno modifica la sua “biologia” e le sue funzionalità.
Vediamo come.
Un modo di frenare che è bene che i leader più accorti intercettino quanto prima sono le hidden agendas (agende parallele). L’espressione inglese è ormai un mantra nei testi di management e si riferisce a piani o obiettivi non trasparenti che alcuni membri del team perseguono individualmente. Anni fa, per portare un esempio, fui testimone, nel condurre un progetto di consulenza in una grande azienda del settore delle telecomunicazioni, di come il manager a capo della divisione di servizio più matura lavorava affinché la divisione emergente dei servizi via web venisse dismessa dal core business aziendale. E questo a dispetto delle chiare linee strategiche concordate nel team direzionale.
Le agende parallele possono riguardare obiettivi di carriera, di collocamento di “protégés”, o semplicemente di competizione. Competizione tra colleghi invece che con i concorrenti.
L’opacità di questi obiettivi paralleli, sotterranei, è un vero inquinante per la forza di un team di direzione. Si creano diffidenza e cinismo. Anche le persone allineate e convinte poco per volta perdono fiducia.
Un altro modo di frenare nasce quando tra le persone non c’è vero allineamento sui valori. In un’azienda di distribuzione di prodotti farmaceutici ho conosciuto anni fa’ un nuovo amministratore delegato che nel prendere in mano l’azienda e il team direzionale volle dare forte enfasi al comportamento etico come segno distintivo dell’azienda sul mercato (un mercato, in verità, segnato da condotte non propriamente etiche). I problemi nacquero quando fu evidente che il responsabile commerciale, preesistente, veniva da anni di buoni risultati commerciali basati su approcci verso i clienti che potremmo eufemisticamente definire creativi. Fu subito chiaro che questo disallineamento non era solo una questione tecnica, ma investiva l’identità e la credibilità del progetto aziendale. E’ per questo che il nuovo AD decise di rimuovere il responsabile commerciale, nonostante i risultati numerici positivi. I fatti alla distanza gli hanno dato ragione.
Un terzo modo, spesso non consapevole, di frenare il team è la sindrome del “questo lavoro lo faccio da vent’anni”. E’ la trappola mentale che può ingabbiare chi è stato fermo a lungo in un ambiente o in un ruolo, e sviluppa anticorpi che resistono al nuovo e al cambiamento. E’ la trappola dell’esperto, che è ben diversa da quella “mente del principiante”, espressione cara all’insegnante Zen giapponese Suzuki Roshi, che descrive il prezioso atteggiamento della curiosità, del desiderio di nuovi apprendimenti, della apertura ai cambiamenti. Senza nulla togliere al valore dell’esperienza acquisita nel tempo. In un team che deve muoversi nell’ambiguità di un mercato che cambia, la sindrome dell’esperto può essere frenante. Esperto di storia, ottima cosa. A condizione che non ponga limiti ad un futuro in costruzione. Un buon team condivide alcune convinzioni ferme (errori da non compiere, trend del mondo, regole base del business) ma al di là di queste tutto può essere messo in discussione.
L’effetto di un frenatore nel team va al di là della sua azione individuale. Modifica il sistema squadra investendo anche gli altri, generando confusione e demotivazione. E indebolendo la credibilità della leadership verso la squadra, verso l’interno (personale dell’azienda) e verso l’esterno (stakeholders).